giovedì 22 maggio 2025

 

Angelo Di Matteo

paracadutista e partigiano

«Nessuno si senta offeso», aggiungeva De Gregori al suo verso forse più celebre: «La storia siamo noi»; che anche lui ebbe uno zio partigiano. Perché scomodare Croce, che scrisse della storia come pensiero e azione, mi pare eccessivo, anche se la piccola vicenda che adesso racconto riguarda un corregionale del filosofo che fu abruzzese. Solo che mentre lui dava alle stampe il suo famoso lavoro, nel 1938, l’altro, decisamente meno noto, diveniva soldato di leva e appena sei anni dopo cessava di vivere, a motivo della guerra che era dilagata e alla quale era stato richiamato. «Non fate la guerra, che poi dobbiamo studiarla» recitava un cartello issato da ragazzi che manifestavano per la pace. Solo che a volte la storia è come un sasso caduto in acqua, lui va giù imperterrito, mentre in superficie le onde di quell’evento si trasmettono, fino a lambire chi sta sulla riva. Così è accaduto che qualche riverbero di quella storia è arrivato fino a me. Le vicende che vi voglio narrare, per quel poco che sono riuscito a trovare e nei documenti reperire, è quella di un mio zio materno, il primo di dieci figli, nati tutti a Ripe di Civitella del Tronto, un paese montano alle falde dei monti Gemelli in provincia di Teramo.

Si chiamava Angelo e di cognome Di Matteo, il medesimo degli altri nove che nacquero da Antonio, suo padre, e da Di Paolantonio Antonia, quando questi avevano entrambi ventidue anni ed erano contadini, come quasi tutti all’epoca, in quel piccolo paese che allora portava il nome di Villa Ripa. Fu registrato presso l’anagrafe comunale di Civitella del Tronto due giorni dopo la nascita che avvenne alle cinque del mattino del 3 Novembre del 1920. Di quei dieci figli di Antonio e Antonia, ne restano ormai solo due, mia zia Nella e Maria, mia madre che ha superato i novanta. E’ lei che mi ha passato il cruccio di avere un parente le cui gesta rimanevano avvolte nel mistero di poche notizie trapelate e di cui soprattutto mai si conobbe la causa vera della morte, né la sepoltura. Ero piccolo, infatti, quando passando l’estate al paese natale dei nonni e dei miei genitori, sentii parlare per la prima volta di questo zio di cui si diceva fosse paracadutista, e per un bimbo questo già bastava a suscitare ammirazione, e che fosse caduto in guerra, perché stava cogli inglesi, quindi con gli alleati – allora, dalla parte giusta, pensavo - ma altro non domandavo e neanche mi raccontavano. C’è in alcune famiglie - se poi vengono dalla montagna e con un retroterra culturale semplice questo si accentua - una sorta di ritrosia a parlare delle proprie cose o delle vicende familiari, come se potesse venire qualcuno a rapirle o perché, lasciando aperto un varco all’emozione, ci si possa sentire più vulnerabili.

 Così, decisamente più grande, passati i miei venti anni,  con mamma decidemmo di fare un salto a Guardiagrele in provincia di Chieti a trovare il luogo di sepoltura dello zio, perché lì, narravano le notizie, a me pervenute solo oralmente, era stato ucciso e probabilmente sepolto. Di babbo non dico, perché poveretto, dovette lasciarci soli dopo averci accompagnati. Per via si era rotto qualcosa ai freni e passò tutto il tempo dai meccanici, perché dovevamo anche fare ritorno. Una giornata memorabile. Andammo al cimitero a fare un giro e alla ricerca di un segno, del resto non era molto grande e noi parecchio avventurosi, come chi va in cerca di fortuna, che non arrivò. Infatti non trovammo nulla, né lapide, né una dicitura brunita dal tempo che facesse al caso. Anche nel registro delle tumulazioni che gentilmente un custode ci mise per le mani, trovammo la pagina del 1944, anno della morte di Angelo, strappata. La macchina sempre dal meccanico decidemmo di fare un salto in comune. Furono gentili, commossi per la storia, ma decisamente occupati. Ci consigliarono qualche buon ristorante nei dintorni ed elargirono sorrisi di circostanza. E dato che la macchina aveva riavuto i suoi freni decidemmo tutti e tre di fare un salto al cimitero inglese di Torino di Sangro, sempre in provincia di Chieti. Se zio era stato con gli alleati, forse stava lì, fra quei soldati. Ma non c’era. Solo molto più tardi venni a sapere che proprio sul Sangro furono intraprese feroci battaglie per lo sfondamento della linea Gustav, dal novembre al dicembre del 1943. Come quella di Ortona, anche se si combatté su un altro fiume, il Moro, dal 20 al 28 dicembre 1943, dove le truppe Alleate della prima divisione canadese si scontrò con i tedeschi del terzo reggimento paracadutisti: «Die Festung Ortona ist bis zum letzten Mann zu halten - la Fortezza Ortona deve essere difesa fino all'ultimo uomo», aveva ordinato Hitler. Da allora non ho più pensato allo zio, fino a qualche tempo fa.

Perché mi sia tornato in mente, non lo so. Forse per l’indole di non lasciare le cose a mezzo o più probabilmente perché negli ultimi anni, vivendo ormai da tanto in Toscana, sono venuto a contatto con le vicende che si consumarono sulla linea Gotica, la parente stretta della Gustav tracciata dai Tedeschi più a sud e traversante l’Abruzzo appunto, come sopra detto. Della Gotica ho visitato un museo, letto diverse cose quando mi toccò preparare una tesina per divenire accompagnatore escursionistico e, naturalmente, visitato molteplici postazioni, percorrendo soprattutto sentieri di montagna insieme ad amici, per esperire di persona quanto cruenta fosse stata quella guerra, per i lutti che ancora si perpetuano e dolorosa, per le divisioni di cui il terreno ancora conserva traccia, ma ben più profonde nell’animo per i ricordi di quelli di allora e di chi oggi ne conserva memoria.

Poco tempo fa, in questo anno 2025, ho iniziato a fare ricerche. Grazie ad internet sono pervenuto ad un sito piuttosto farraginoso dove, però, sono riuscito a trovare un elenco di tutti i caduti abruzzesi della seconda guerra mondiale, morti in patria o all’estero, oppure lì dispersi come nell’Egeo o in Russia. E con sorpresa e gioia è comparso il nome dello zio Di Matteo Angelo (foto). La data di nascita era sbagliata, ma io questo sul momento non lo sapevo. Parlandone con mamma Maria lei ricordava fosse del 1920 e del ‘21 sua sorella maggiore Concetta, mentre su quel documento era riportato l’anno 1916. Ma la cosa che più attrasse la mia attenzione, oltre la data della morte e del luogo approssimativo dove successe, denominato «territorio metropolitano», era che vi fosse scritto che lo zio era membro dei paracadutisti dello Squadrone «F». Finalmente una notizia precisa e molto interessante.

Perché, per chi non lo sa, lo Squadrone «F», per la precisione «F»recce squadron, appellativo dato a quella formazione dagli inglesi, è l’antesignana di quella che oggi è la conosciutissima Folgore, che ha una storia militare complessa ed articolata che supera l’economia di questo scritto e per la quale esiste una bibliografia corposa. Brevemente ricordo che a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943 si generò un disorientamento generale fra le truppe italiane che si ripercosse anche sul 185º Reggimento fanteria paracadutisti «Folgore» e in particolare sui tre battaglioni che operavano in maniera autonoma. Una parte del III Battaglione, guidata dal capitano Sala, si unì alle forze tedesche. Invece il Cap. Carlo Francesco Gay, comandante della 9ª compagnia del III battaglione e altri paracadutisti, decisero di staccarsi dal grosso del battaglione per rispettare le clausole armistiziali. Mentre il grosso dell'XI Battaglione costituì il 185º Reparto autonomo arditi paracadutisti «Nembo», confluendo nell'esercito cobelligerante, l’aliquota di paracadutisti guidati dal Capitano Gay entrò a far parte nel XIII corpo d’armata britannico, costituendo il nucleo iniziale nel cosiddetto 1º Reparto speciale autonomo. Nel gennaio 1944, il reparto al comando del Cap. Gay, si trasformò in 1º Squadrone da ricognizione «Folgore», meglio conosciuto come «Squadrone F» oppure «F» Recce Squadron». Lo Squadrone F fu impiegato in ruoli d’avanguardia, svolgendo attività di pattuglia oltre le linee nemiche, con compiti di ricognizione, osservazione e raccolta d’informazioni nonché colpi di mano contro obiettivi sensibili, allo scopo di favorire l’avanzata delle forze alleate da sud a nord, per la liberazione dell’Italia dall’occupazione tedesca. Il primo teatro operativo, furono le montagne abruzzesi della Majella. Seguirono impieghi nel centro Italia e in Toscana. Soprattutto nel mese di marzo del 1945, lo Squadrone F, fu chiamato ad assolvere un ultimo impegnativo compito, che ne determinò il passaggio alla storia del paracadutismo militare italiano: l’Operazione Herring.

Ora potete immaginare l’emozione e la sorpresa di reperire un documento che legava lo zio a queste vicende. Soprattutto che avesse scelto o fosse stato cooptato fra quelli che contribuirono a liberare l’Italia e non continuare ad opprimerla. Decisi così di chiamare la Folgore e dopo vari passaggi sono stato indirizzato al «185° RRAO», ovvero il 185º Reggimento paracadutisti Ricognizione ed Acquisizione Obiettivi Folgore, che ha sede a Pisa, presso la Caserma Pisacane, uno dei corpi di elìte  maggiormente decorati dell’esercito italiano, che ha ereditato la storia del glorioso Squadrone F, acquisendone il labaro (foto), proprio nel Gennaio di quest’anno. E sul labaro compare il nome di Guardiagrele (Ch) dove morì il soldato Angelo. Sono stati molto gentili, interessati e disponibili a reperire maggiori informazioni.

Contestualmente ho fatto altre due cose, oltre che continuare a ricercare e leggere quante più notizie potevo in un comprensibile mare magno. Esiste un ufficio per la tutela della cultura e della memoria del Ministero della Difesa ed una banca dati dei caduti e dispersi delle ultime due grandi guerre mondiali. Mi sono rivolto a loro. Cortesemente hanno risposto che avrebbero fatto ricerche, ma che ci sarebbe voluto tempo perché il materiale andava reperito altrove e non consultabile digitalmente, come si può immaginare. La seconda cosa che ho fatto è stata chiamare un sacerdote, don Elvezio Di Matteo, parroco di diverse comunità nella Diocesi di San Benedetto del Tronto, Ripatransone e Montalto e parente di mia mamma, quindi anche dello zio scomparso in guerra. Ma soprattutto custode di tante memorie legate a persone e al territorio e dotato di ottima memoria. L’ho chiamato perché in quell’elenco, sotto il nome di Angelo, figura quello di Di Matteo Elvezio che, con grande sorpresa, il sacerdote mi dice essere un suo parente stretto, disperso nell’Egeo. Poi inizia a chiedermi, senza neanche aver visto quell’elenco che io invece avevo avanti, se ci fosse il tale o il tal altro ed io rispondo di si, quasi tutti nati intorno all’anno 1920. Solo mio zio era riportato che fosse nato nel 1916, un errore come si vedrà più avanti. L’altra particolarità che notammo è che diversi nomi di quei caduti, ad esempio Carlo, Pancrazio, Vincenzo, furono dalle famiglie del paese di Ripe di Civitella, dati ai nipoti, come per conservarne la memoria. Ad esempio, nella mia famiglia, dal lato materno, il nome di Angelo fu dato ad un cugino, figlio di Gabriele e fratello del defunto; purtroppo anche questo Angelo, decisamente più giovane, è morto prematuramente. Avendolo conosciuto so che questa storia gli sarebbe piaciuta, perché non è ancora terminata.

Giorni fa è arrivata la risposta dal Ministero della Difesa, con un corposo allegato di ben 88 pagine, attraverso le quali ho potuto avere alcune conferme e notizia di altre novità di cui non ero a conoscenza, che hanno aperti altri fronti: un termine calzante, se usato in questo contesto. Angelo Di Matteo fu effettivamente un paracadutista dell’esercito italiano, iscritto presso il 1° Reggimento Paracadutisti Mobilitato. Egli nacque non nel 1916, ma il 3 Novembre del 1920, come più sopra riportato. Prima di divenire soldato, di mestiere faceva il calzolaio, non era di grande statura, essendo alto 1,58m e aveva gli occhi cerulei, come i miei e quelli di diversi Di Matteo, sapeva leggere e scrivere e aveva fatto la quinta elementare. Espletò il servizio di leva che portò a termine il 10 Febbraio 1939, ma venne richiamato in fanteria l’11 Marzo 1940. Nel Marzo del 1941 lo si trova distaccato presso i paracadutisti a Tarquinia (Vt)  dove il 25 Giugno di quell’anno riceve la qualifica di paracadutista appartenente al reggimento sopra menzionato. Trattenuto alle armi l’11 Settembre del 1941, fu sottoposto ad una visita di controllo presso l’ospedale militare di Firenze il 14 Marzo 1943 e giudicato, come si legge nel suo stato di servizio: «incondizionatamente idoneo al servizio militare». Ed è qui che la storia prende una piega diversa e arrivano le novità anche su Angelo.

L'8 settembre 1943 rappresenta un momento cruciale nella storia d'Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. In quel giorno, il Regno d'Italia, sotto la guida del governo Badoglio, annunciò la sua resa incondizionata agli Alleati, ponendo fine alla sua partecipazione alla guerra. Attraverso i microfoni di Radio Algeri, gli italiani appresero dal generale Eisenhower che: «Il governo italiano si è arreso incondizionatamente a queste forze armate. Le ostilità tra le forze armate delle Nazioni Unite e quelle dell'Italia cessano all'istante. Tutti gli italiani che ci aiuteranno a cacciare il tedesco aggressore dal suolo italiano avranno l’assistenza e l’appoggio delle nazioni alleate». Era l’annuncio dell’armistizio, firmato cinque giorni prima a Cassibile (Sr). L’armistizio segna uno spartiacque nella storia dell’Italia: finisce l’alleanza con la Germania nazista e contestualmente iniziano gli ultimi sedici mesi di guerra, mesi difficili, di stragi, di bombardamenti e di rappresaglie, che portarono al 25 aprile del 1945, alla liberazione dell’Italia, alla fine del fascismo e della guerra.

Come più sopra ricordato quella storica data portò a  cambiamenti enormi e scombussolamenti che interessarono anche l’esercito italiano, i suoi comandanti, come anche la truppa. E fra questi c’era anche Angelo, il quale a seguito dell’armistizio ritroviamo facente parte di organizzazioni partigiane operanti in Abruzzo. Sul suo stato di servizio leggiamo infatti che: «in seguito agli avvenimenti sopravvenuti all’armistizio ha fatto parte dal 25 Settembre 1943 al 28 Marzo 1944 della formazione partigiana «Ammazzalorso» operante nella zona di Teramo, assumendo la qualifica gerarchica partigiana di Comandante di Brigata». E questa è la novità.

Ora perché Angelo, come altri del resto, sentì di passare dall’esercito ad una formazione partigiana non lo sappiamo. I documenti non ci dicono nulla delle sue qualità morali o dei suoi sentimenti, annotando solo alcuni fatti. Neanche ci raccontano di pecche o mancanze: nessuna annotazione negativa è appuntata sul suo stato di servizio. Cosa può essere successo, posso solo immaginarlo anche se so perfettamente che la storia non si fa con la fantasia, bensì sui documenti, vagliandoli e soppesandone il valore, dando ad ognuno di loro la giusta collocazione. Ma forse, vista la vicenda nel suo complesso, che ha che fare con memorie familiari, qualche supposizione, non avendo altro, è lecita farla.

Lo stato di servizio di Angelo annota il suo «sbandamento» che, in ambito militare, assume la connotazione di termine tecnico, quasi una diserzione. Ma in quel famoso frangente, a seguito dell’armistizio, la parola acquista invece un colorito ed un senso diverso: aver perso i propri riferimenti ed essere disorientati. Non a caso nell’esercito ci fu chi rimase col cobelligerante tedesco e chi invece optò per la lotta di liberazione dallo stesso, seguendo i dettami dell’armistizio. Dopo l'Armistizio italiano dell'8 settembre 1943 le forze militari italiane in Italia e nei Balcani non furono in grado di tenere testa ai tedeschi. Il loro collasso fu quasi immediato e senza combattimenti, e fu determinato, da un lato, dalla mancanza di direttive precise, di ordini superiori che aiutassero a gestire la situazione di crisi; dall'altro, dall'incapacità dei comandanti italiani di reagire al disorientamento. Dei circa 3.500.000 uomini - di cui almeno mezzo milione di reclute appena chiamate alle armi - che componevano l'esercito dell'Italia fascista nella primavera 1943, ai quali si aggiungevano 150.000 ufficiali, i tedeschi ne disarmarono forse un milione, incamerandone direttamente una quota e deportandone il resto. Degli altri militari italiani, chi poté scappò. Erano i cosiddetti «sbandati»: soldati fuggiti dal fronte per tornare a casa o nascondersi con il generoso aiuto della popolazione locale. Molti di loro si rifugiarono anche in montagna e diedero origine ad alcune delle prime bande partigiane. Solo una piccola parte di «sbandati» fu recuperata dall'Esercito e, nel corso dei mesi, riportata ai reparti.

Riporto una testimonianza di chi visse quei momenti: «L’8 settembre del 1943 fu per me come per molti altri militari italiani, un giorno indimenticabile. Si passava dalla gioia sfrenata per la fine della guerra, il ritorno a casa e la pace ritrovata, alle notizie che dicevano: «sei militare, non ti devi muovere, devi aspettare gli ordini, se vai a casa puoi essere considerato un disertore». Ed essere un disertore in caso di guerra è una cosa seria. Se ne sentivano di tutti i colori e la radio non ci dava notizie utili. Ad un certo punto il nostro tenente, che era andato alla ricerca di un comando e li aveva trovati tutti deserti, ritornò al reparto per dirci che lui ritornava a casa…» (Luciamo Manzi)

Ma lo «sbandato» Angelo non tornò a casa. Forse quella notizia, reperita in un documento, che lo menziona fra i membri dello Squadrone F, lascia pensare che in un primo momento, poiché paracadutista ormai da due anni, volesse seguire il gruppo guidato dal Capitano Gay? Costoro si unirono al corpo d’armata britannica, vincendo con le loro imprese di valore le iniziali ritrosie degli inglesi verso quegli italiani che avevano d’improvviso cambiato casacca. Ma è anche possibile, ed io lo credo, che, siccome quello Squadrone di paracadutisti veniva chiamato a risalire la penisola e di azione in azione arrivare fino alla liberazione di Firenze nell’ambito della famosa Operazione Herring, Angelo abbia invece optato di unirsi ad una formazione partigiana locale, operante in Abruzzo, in un territorio, quindi, da lui conosciuto bene e nel quale poteva dare il suo apporto. Nella segreta speranza che, rimanendo nella sua regione, una volta terminato il conflitto, avrebbe potuto tornare velocemente a casa e riprendere una vita normale, se pure si può chiamare così, dopo una guerra. La situazione di Angelo, come abbiamo visto, è simile a quella di molti altri soldati, ed è cosa rimarchevole che non sia fuggito o nascosto, ma abbia scelto di unirsi ai partigiani, a una di quelle plurime bande che si stavano formando in ogni parte del paese, come pure in Abruzzo, tutte accumunate dai pochi mezzi disponibili. Decise, credo di pensare, che volesse continuare la lotta contro il nemico collocandosi diversamente, nella speranza di essere incisivo, di lasciare un segno, rimanendo nella sua regione d’origine Purtroppo incontrerà la morte.

La storia delle bande partigiane in Abruzzo è nota, fatta oggetto di pubblicazioni e tesi di laurea. Fra tutte la più famosa è la Brigata Majella, l’unica formazione partigiana insignita della medaglia d’oro al valor militare alla bandiera. Ma non meno conosciuta agli storici fu la banda partigiana «Ammazzalorso», di cui Angelo, dicono i documenti, ha fatto parte, nel sottogruppo guidato da un certo De Felicis. Questa banda partecipò ad un episodio noto agli storici, ma non così conosciuto ai più: la battaglia di bosco Martese, in provincia di Teramo. Avvenne nel 1943 nei pressi della località Ceppo di Rocca Santa Maria (Te). Fu la prima battaglia in campo aperto fra partigiani e soldati tedeschi. Si consumò tra il 21 ed il 25 Settembre del 1943. In quella località si radunarono circa duemila persone comprendenti soldati italiani e non, fra cui si annoveravano circa 320 sbandati, ex-prigionieri di guerra in maggioranza inglesi e slavi, gruppi di antifascisti e civili teramani antifascisti, con l'intenzione di costituire un presidio per difendere Teramo da eventuali attacchi da parte dei tedeschi. Fra questi, in numero consistente, anche i partigiani dell’«Ammazzalorso». Forse anche Angelo, che conosceva bene quel territorio, non molto distante dal suo paese natio, ne fece parte? Non lo sappiamo. Egli, racconta il suo stato di servizio, entrò fra quei partigiani proprio il 25 di Settembre, ultimo e decisivo giorno di svolgimento di quei fatti. Il combattimento di Bosco Martese fu definito dal capo partigiano Ferruccio Parri,  primo presidente del Consiglio dei ministri a capo del governo di unità nazionale, istituito alla fine della seconda guerra mondiale: «La prima nostra battaglia in campo aperto» tra forze partigiane e truppe nazifasciste a cui «tutti i resistenti italiani rendono onore».  Armando Ammazzalorso  fu, poi, colui che entrando in Teramo coi suoi, ne annunciò la liberazione (foto). Era il 16 Giugno del 1944 ed Angelo era già morto da due mesi.

Le notizie che riguardano Angelo Di Matteo una volta uscito dal raggio d’azione dei militari diventano scarse, incerte e nebulose. Per questo mi sono soffermato sul contesto per mostrare quanto fu difficile e complesso e come la figura di un personaggio alla fine marginale, potesse fra quelle vicende scomparire. Così non sappiamo perché Angelo si trovasse, non a Teramo con i suoi compagni partigiani, bensì a Guardiagrele (Ch) al seguito degli inglesi. In una lettera del 25 Maggio 1946 il padre Antonio scrive al «ministero post bellico» (sic) e chiedendo notizie del figlio, così si esprime: «Fu comandato in data 15 ottobre 1943 a far da guida a paracadutisti inglesi che scesero nei pressi di Civitella del Tronto in cerca di prigionieri inglesi, in quanto sbandati. Successivamente il partigiano Di Matteo Angelo fece parte della commissione segreta di paracadutisti inglesi che aveva il comando a Bari. Il sottoscritto ebbe notizie del figlio fino alla data 10 Marzo 1944 e da quel giorno non ebbe più notizie». Un altro documento, un telegramma inviato nell’Ottobre del ‘49 dai Carabinieri di Civitella del Tronto all’ufficio matricole del Distretto Militare riporta: «Il nominato in oggetto risulta deceduto in Guardiagrele (Ch) il 28/3/1944 in seguito a ferite riportate ad opera di militari tedeschi essendo egli partigiano (combattente) al seguito delle truppe alleate. La famiglia non è in possesso di corrispondenza ed ha appreso la morte del congiunto da Ufficiali Alleati venuti espressamente in Civitella del Tronto per elargire alla suddetta famiglia un sussidio».

Oltre la circostanza relativa ai rapporti cogli inglesi, risultano contrastanti le notizie sul motivo della sua morte. Un paio di documenti parlano di fucilazione, mentre la maggioranza riporta che avvenne per ferite riportate in combattimento. Nonostante gli sforzi e le richieste avanzate perfino alla Croce Rossa non si è potuto conoscere il luogo della sepoltura. Lo stesso Comune di Guardiagrele (Ch) interpellato dal Ministero della Difesa rispose nel 1962 che non poteva fornire informazioni perché all’epoca dei fatti era sfollato.

Alla fine le incertezze prevalgono sulle notizie che conforterebbero la storia di come sono svolti i fatti. Credo che per molti sia andata così ed anche peggio a coloro che risultano addirittura dispersi per il mondo o deceduti in qualche campo di concentramento.

Però una notizia certa l’abbiamo: Angelo fu un partigiano caduto per la lotta di liberazione. Lo attesta la Commissione regionale abruzzese per il riconoscimento della qualifica di partigiano che iniziò ad operare a L’Aquila dal 1948, riunendosi anche due volte al giorno nei primi tempi. Nel loro lavoro ordinario i membri della commissione «esaminarono alcuni ricorsi per riconoscimento, cambiamento o revoca di qualifiche, infermità etc. La Commissione continuò così almeno fino alla fine dell’anno, allegando ai propri verbali lunghi elenchi di riconosciuti e non riconosciuti. Solo sporadicamente i pareri sui riconoscimenti non si limitavano al mero esito della valutazione, ma in quelle poche occasioni i giudizi riassumevano le conclusioni di un’analisi complessa». La Commissione il 23 Giugno 1946 riconobbe Angelo Di Matteo in quanto partigiano, caduto per la lotta di liberazione, con la qualifica, apposta in calce, di Comandante di Battaglione – Tenente (Scheda nr 1565).  

Giunto al termine, non mi resta che dedicare questo breve excursus a mia mamma, la sorella ancora in vita di Angelo ed anche alla più piccola dei dieci figli, l’altra sorella Nella, le uniche rimaste. Lo dedico anche a chi avrà la pazienza di leggere ed infine al Comune di Civitella del Tronto (Te) che si vanta di avere la via più stretta d’Italia, se non del mondo. Chissà che non trovi un angolino, un pertugio o un cantuccio da dedicare a questo suo figlio che nacque in quel territorio, imparò l’arte del calzolaio, ma poi partì soldato, divenne paracadutista ed infine si legò alla lotta partigiana, tanto da esserne certificato. Perché come si è espresso il Colonnello Contristano dell’Ufficio per la tutela della memoria del Ministero della Difesa a chiusura della lettera che accompagnava i documenti di Angelo: «Sia di conforto sapere che mai potrà venire meno la riconoscenza e la memoria verso chi ha donato la vita per la Patria».

Massimo Cardilli

Pisa, Maggio 2025







lunedì 9 novembre 2015

La meravigliosa realtà delle cose

La meravigliosa realtà delle cose
E la mia scoperta di tutti i giorni.
Ogni cosa é ciò che é,
E' difficile spiegare a qualcuno come ciò mi rallegri,
E quanto mi basti.

*

Un giorno di pioggia è bello come un giorno di sole.
Entrambi esistono, ognuno è come è.

*

Non ho fretta. Fretta di cosa?
Non hanno fretta il sole e la luna: sono esatti.
Avere fretta è come credere di camminare oltre le gambe
O, con un balzo, saltare al di sopra dell’ombra.
No; non ho fretta.
Se allungo il braccio, raggiungo esattamente il punto
che il mio braccio raggiunge –
Non un centimetro oltre.
Tocco solo dove tocco, non dove penso.
Posso sedermi soltanto dove sto.
E ciò fa sorridere come tutte le verità assolutamente vere.
Ma quel che fa ridere a crepapelle è che noi pensiamo sempre
ad un’altra cosa,
E siamo vagabondi del nostro corpo.

*

Come un bambino prima che gli insegnassero
ad essere grande,
Fui autentico e leale a ciò che vidi e sentii.

(F. Pessoa, Sono un sogno di Dio)

mercoledì 14 ottobre 2015

In Lak'ech io sono te

In Lak' ech (il saluto Maya)
"In lak’ ech" (Io Sono Un Altro Te) è un saluto che esprime il concetto di fratellanza. I Maya avevano compreso bene che alla base di ogni rapporto ci deve essere connessione, ma soprattutto riuscivano a “vedere” nell’altro solo una manifestazione diversa della stessa Fonte. Quando dico altro non mi riferisco solo ad un essere umano, intendo dire qualsiasi essere vivente, un animale, un albero, un corso d’acqua.
Grazie a Thomas Torelli, regista e produttore del Film ‘Another World’ che mi ha fatto scoprire questa espressione


U2 - One unplugged